giovedì 4 marzo 2010

Invictus

Dal profondo della notte che mi avvolge
buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro,
ringrazio qualunque Dio esista
per l'indomabile anima mia.

Nella feroce morsa delle circostanze
non mi sono tirato indietro né ho gridato per l’angoscia.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
il mio capo è sanguinante, ma indomito.

Oltre questo luogo di collera e lacrime
incombe solo l’orrore delle ombre
eppure la minaccia degli anni
mi trova, e mi troverà, senza paura.

Non importa quanto sia stretta la porta,
quanto piena di castighi la vita.
Io Sono il signore del mio destino:
Io Sono il capitano della mia anima.

(William Ernest Henley)


Sebbene non ci troviamo di fronte al migliore Eastwood ("Mystic River" e "Million Dollar Baby" restano inarrivabili), il cineasta californiano continua ad essere una delle poche certezze di questo mondo (cinematografico e non) confusionario e precario.
Come un caro, vecchio amico di cui ci fidiamo ciecamente, il regista ci accompagna con mano sempre ferma ma colma di grazia in una storia realmente accaduta (siamo nel 1995, Nelson Mandela è stato appena eletto presidente del Sud Africa e la squadra di rugby nazionale disputa la Coppa del Mondo tra mille avversità), ancora una volta portando sullo schermo uno sport "violento" (come fu la boxe nel film con Hilary Swank) per farne metafora della vita e, in questo caso, dello spirito di un'intera nazione, quella divisa che il neo-eletto presidente Mandela si ritrova a dover governare.
Morgan Freeman, da applausi, si cala alla perfezione nei difficili panni di uno dei leader più carismatici di sempre, oltre che geniale comunicatore: all'attore candidato all'Oscar (ma purtroppo non lo vincerà) basta un movimento della bocca o uno sguardo per rendere tutta l'umanità e la speranza di un uomo che, dopo Gandhi, è stato forse l'esempio più lampante e fulgido di forza interiore che la Storia contemporanea ricordi.
Eastwood, attento ai particolari, senza paura di addentrarsi in un racconto che poteva scadere nel banale e libero da timori nel dover rappresentare un'altra cultura ed un altro popolo (se ne era già avuta prova con "Lettere da Iwo Jima"), restituisce con abilità e sguardo generoso e sincero l'atmosfera di una nazione straziata dall'apartheid, soprattutto da una singola, semplice scena: la squadra di guardie del corpo di Mandela, totalmente di colore, che viene rinforzata da uomini bianchi appena il presidente si insedia, scatenando tensioni in modo eloquente, pur senza usare dialoghi pleonastici.
La violenza del rugby, poi, viene raffigurata in tutto il suo vigore, realisticamente: le botte, i lividi, il sudore, il sangue. Essi rappresentano la lotta viscerale di una squadra che porta un fardello micidiale: sacrificare se stessa per portare un messaggio di spirito nazionale, uno ed unito sotto un'unica bandiera, grazie anche al suo capitano, un convincente Matt Damon (anche lui candidato all'Oscar, come non protagonista).
Da segnalare, infine, la frase pronunciata da un agente della squadra dei bodyguard: "Il calcio è uno sport per gentiluomini giocato da selvaggi, il rugby è un gioco per selvaggi giocato da gentiluomini."


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