L'attesa è stata ampiamente ripagata: il film più nominato di questa edizione degli Academy Awards si rivela un piccolo, grande gioiello del cinema contemporaneo. Semplice e diretto come lo sguardo del protagonista (un Brad Pitt in stato di grazia, i suoi occhi spaesati e pieni di meraviglia per le mille avventure e per le molteplici strade che percorre, accompagnando dolcemente lo spettatore nel suo fantastico viaggio, sono il perfetto specchio per lo spirito di Benjamin Button, la cui metamorfosi inversa non si compie solo sul suo corpo), ma allo stesso tempo sontuosamente e magistralmente diretto, fotografato e realizzato, attraverso una tecnica di effetti visivi rivoluzionaria e sofisticata, impensabile fino a qualche anno fa. Unita ad un make-up magistrale, il risultato tecnico della pellicola stupisce ma rende anche umana e verosimile l'incredibile storia, non lasciando che la tecnologia computerizzata influisca sulle espressioni ed il calore dei personaggi.
Per questo resta, nonostante sia validissima, in secondo piano nell'impatto visivo ed emotivo, lasciando incisività e ritmo alla narrazione di una vita unica e originale, che attraversa tutti gli stadi dell'esperienza di un essere umano, solamente al contrario, iniziando dalla vecchiaia e finendo con il primo (ultimo) vagito.
Sia melodramma che opera fantastica, love-story e racconto di formazione, questa metafora del tempo che passa, dell'abbandono, della morte, della scoperta di sé, delle persone che ci cambiano per sempre e degli affetti che si incontrano lungo il cammino, di quelli che perdiamo e che non dimentichiamo mai, non si posiziona nettamente in nessuna catalogazione precisa, ed è proprio questo il suo punto forte: David Fincher, regista abituato a ben altri scenari e generi ("Seven", "Fight Club", "Panic Room", "Zodiac") fa centro e riesce nell'intento, stilistico e artistico, di colpire al cuore del pubblico, raccontando con maestria, artificio solenne e lirismo (ma mai ridondante) una storia complessa che si snoda in numerose direzioni, come quelle intraprese dal protagonista.
Merito anche di una straordinaria sceneggiatura, tratta da un racconto breve di Francis Scott Fitzgerald del 1922 e riadattata da Eric Roth, che fa immergere lo spettatore completamente ed incondizionatamente nel meraviglioso mondo di Benjamin Button, appassionandolo e conducendolo accanto a lui nel cammino, anatomicamente, a ritroso.
Attuale in un'epoca in cui ogni individuo è terrorizzato ed ossessionato dall'idea di invecchiare, in cui il bisturi è il simbolo dell'Occidente avanzato e dove la ricerca di punti saldi è resa impossibile dalla precarietà dei sentimenti.
Accettare il proprio destino e soprattutto accettare di lasciarsi amare, sacrificando la propria felicità per il bene altrui, raggiungere la maturità per compiere determinate azioni e avere la saggezza di sapere quando la vita ci sta chiedendo troppo: tutto questo ci viene mostrato attraverso uno sguardo pop, pittorico, oscuro e labirintico.
Inoltre la vita di Benjamin Button segue passo passo i fatti più salienti di oltre 50 anni di storia americana, raffiguarando un Paese martoriato ma in continua rinascita: egli viene dato alla luce alla fine della Prima guerra mondiale, passando poi attraverso la Grande Depressione, gli attacchi a Pearl Harbor ed il primo viaggio dell'uomo sulla Luna. Ed i suoi diari, attraverso i quali, con continui flashback, viene ricostruita la sua esistenza, sono letti dalla figlia ignara sul letto di morte dell'amore della sua vita, nella notte in cui l'uragano Katrina si abbattè su New Orleans, causando una delle tragedie più scioccanti che la storia moderna ricordi.
Accanto all'interpretazione mimetica (ed impegnativa) di Brad Pitt, risplendono due attrici, diversissime tra loro, ma ugualmente efficaci: Cate Blanchett, nel ruolo dell'amata Daisy, e Taraji P.Henson, in quello della madre adottiva di Benjamin.
La prima, sempre eccezionale, offre una prova radiosa e risulta convincente e magnifica dai 20 fino agli 80 anni, dall'euforica giovinezza alla canizie e alla malattia terminale. Peccato non vederla nella cinquina delle migliori attrici protagoniste, ma quest'anno la concorrenza era davvero agguerrita.
Chi ha ottenuto la nomination all'Oscar, invece (oltre a Pitt) è proprio la Henson, come non protagonista, genuina ed eccellente nei panni dell'amorevole Queenie.
Le musiche di Alexander Desplat aggiungono ulteriore pathos e gusto onirico alla vicenda, che, a mio avviso, avrebbe tutti i requisiti (tecnici, stilistici, narrativi, recitativi ed empatici) per far breccia nelle preferenze dei giurati dell'Academy.
In effetti, come non accadeva da qualche anno, qui siamo proprio in presenza del perfetto prototipo di film prediletto dagli Oscar: grande budget, storia universale, protagonisti superdivi (o già baciati dalla statuetta come la Blanchett), ricostruzione impeccabile, ambientazione storica, ampio respiro, durata elevata (166 minuti), gratificazione del pubblico, storia d'amore travagliata, famiglia come nido, temi della morte e dell'abbandono, attori che appaiono invecchiati e trasformati fisicamente ed elevazione morale.
Se non fosse che, a quanto pare, anche quest'anno il favorito è un film indipendente, outsider e molto più realistico e "televisivo" come "Slumdog Millionaire".