Già l'aura che avvolgeva la visione era surreale: sala deserta con solo me e Cry ad assistere, in un caldo soffocante (tipo 40°C, non hanno paura della bolletta del gas evidentemente), a quella che è sicuramente una delle più belle (ed importanti) pellicole mai realizzate.
La vera storia di Harvey Milk, colui che ha cambiato per sempre il destino delle minoranze omosessuali negli anni '70, promuovendo San Francisco come capitale mondiale dei diritti civili per i gay.
Non un manifesto militante del pur apertamente omosessuale regista Gus Van Sant (in stato di grazia: dopo gli sperimentali "Elephant", "Last Days" e "Paranoid Park" torna ai "grandi" budget e ad una narrazione più mainstream, senza perdere un briciolo di creatività ed estro), che fortunatamente non cade mai nella trappola della retorica né delle facilonerie a buon mercato.
Questo è un ritratto genuino, ispirato, lucido e profondamente cosciente di un uomo semplice e pieno di ideali, arrivato ad essere il simbolo della lotta e della speranza per milioni di individui.
Come il personaggio "larger than life" che tratteggia, il film trasuda lo stesso entusiasmo e gli stessi sentimenti di coraggio (non si risparmia nei baci, nelle effusioni o nelle scene intime a letto tra i protagonisti, attendiamo il passaggio censurato su Rai2 tra un paio di anni!), di onestà e di convinzione, mai pretenziosa (o pretestuosa), nella propria battaglia e nei propri inalienabili diritti, regalando un affresco (sconosciuto ai più, purtroppo) non solo della lunga passione di Milk per arrivare ad essere eletto alla carica di consigliere comunale (la prima per un politico dichiaratamente gay), ma anche di come il quartiere di Castro sia nato e divenuto fulcro ed emblema della cultura (politica, sociale e di costume) gay, insieme e grazie ad Harvey Milk.
L'interpretazione gigantesca di Sean Penn conferma il suo status assoluto di attore di prima grandezza, il più talentuoso e all'avanguardia tra i suoi colleghi: solo un outsider, non allineato e "ribelle" come lui poteva dare corpo ed anima spontaneamente ed abilmente ad un personaggio così importante e difficile da riportare sullo schermo. Penn lo fa con la sua solita maestria, accettando la sfida di farci scordare del suo infinito machismo, per immergersi, camaleonticamente, nella personalità, nelle movenze, nelle espressioni e nel linguaggio di Milk, evitando di diventare una macchietta o una parodia, ma divertendo, commuovendo ed esaltando come il più vero degli uomini, che ci dimentichiamo, assorbiti totalmente dalla sua performance, essere di celluloide. Applausi ed Oscar, prego.
Accanto a Penn, l'intero cast è azzeccatissimo e convincente: la riscoperta James Franco (finalmente in un ruolo che gli rende giustizia, non fosse altro per la bellezza strabordante, ma c'è di più), il sorprendente Emile Hirsch (ormai lanciatissimo, è il più bravo tra i giovani attori hollywoodiani e regala spessore e furore adolescenziale nella giusta dose), il viscido ed indecifrabile Josh Brolin (nei panni di Dan White regala una performance asciutta e sempre misurata, grazie alla quale ha ottenuto anch'egli una nomination agli Oscar) ed il borderline Diego Luna, eccellente in un ruolo breve ma incisivo.
Il tono documentaristico della narrazione rende ancora più potente tutta l'opera, che non si rivolge esclusivamente ad un pubblico gay, ma a tutti coloro dotati di sensibilità e di un occhio critico, desiderosi e convinti che ogni persona goda degli stessi diritti e che sia ininfluente giudicarla o catalogarla in base a chi si porti a letto, a quale sesso appartenga, a quale sia il colore della sua pelle o quale credo religioso professi.
Purtroppo, 30 anni dopo, soprattutto nel nostro Paese, tanti passi e tanta strada devono ancora essere fatti, ed un Harvey Milk noi italiani non l'abbiamo mai avuto, per giunta.
La Proposition 6 del film non può non farci ricordare dell'attuale Proposition 8 (che vieta i matrimoni tra persone dello stesso sesso), che in America è stata approvata a novembre da un referendum, attualmente in fase di valutazione e giudizio da parte della Corte Costituzionale, per verificare quanto sia opportuno far decidere ad una maggioranza i diritti di una minoranza. Non tutto sembra perduto quindi.
Il perché del film sta proprio qui: oltre che un capolavoro, cinematograficamente parlando, è realmente un'avventura intima, uno sconvolgimento personale, una voglia di partecipazione ed uno scavo profondo nell'animo umano.
Usciti dalla sala si ha la sensazione di essere parte di un meccanismo importante, di poter fare qualcosa nel proprio piccolo e di essere orgogliosi e fieri di ciò che si è, senza se e senza ma.
Per inciso: se non avessi fatto coming out con i miei 2 anni or sono, l'avrei fatto adesso tornando a casa.
La vera storia di Harvey Milk, colui che ha cambiato per sempre il destino delle minoranze omosessuali negli anni '70, promuovendo San Francisco come capitale mondiale dei diritti civili per i gay.
Non un manifesto militante del pur apertamente omosessuale regista Gus Van Sant (in stato di grazia: dopo gli sperimentali "Elephant", "Last Days" e "Paranoid Park" torna ai "grandi" budget e ad una narrazione più mainstream, senza perdere un briciolo di creatività ed estro), che fortunatamente non cade mai nella trappola della retorica né delle facilonerie a buon mercato.
Questo è un ritratto genuino, ispirato, lucido e profondamente cosciente di un uomo semplice e pieno di ideali, arrivato ad essere il simbolo della lotta e della speranza per milioni di individui.
Come il personaggio "larger than life" che tratteggia, il film trasuda lo stesso entusiasmo e gli stessi sentimenti di coraggio (non si risparmia nei baci, nelle effusioni o nelle scene intime a letto tra i protagonisti, attendiamo il passaggio censurato su Rai2 tra un paio di anni!), di onestà e di convinzione, mai pretenziosa (o pretestuosa), nella propria battaglia e nei propri inalienabili diritti, regalando un affresco (sconosciuto ai più, purtroppo) non solo della lunga passione di Milk per arrivare ad essere eletto alla carica di consigliere comunale (la prima per un politico dichiaratamente gay), ma anche di come il quartiere di Castro sia nato e divenuto fulcro ed emblema della cultura (politica, sociale e di costume) gay, insieme e grazie ad Harvey Milk.
L'interpretazione gigantesca di Sean Penn conferma il suo status assoluto di attore di prima grandezza, il più talentuoso e all'avanguardia tra i suoi colleghi: solo un outsider, non allineato e "ribelle" come lui poteva dare corpo ed anima spontaneamente ed abilmente ad un personaggio così importante e difficile da riportare sullo schermo. Penn lo fa con la sua solita maestria, accettando la sfida di farci scordare del suo infinito machismo, per immergersi, camaleonticamente, nella personalità, nelle movenze, nelle espressioni e nel linguaggio di Milk, evitando di diventare una macchietta o una parodia, ma divertendo, commuovendo ed esaltando come il più vero degli uomini, che ci dimentichiamo, assorbiti totalmente dalla sua performance, essere di celluloide. Applausi ed Oscar, prego.
Accanto a Penn, l'intero cast è azzeccatissimo e convincente: la riscoperta James Franco (finalmente in un ruolo che gli rende giustizia, non fosse altro per la bellezza strabordante, ma c'è di più), il sorprendente Emile Hirsch (ormai lanciatissimo, è il più bravo tra i giovani attori hollywoodiani e regala spessore e furore adolescenziale nella giusta dose), il viscido ed indecifrabile Josh Brolin (nei panni di Dan White regala una performance asciutta e sempre misurata, grazie alla quale ha ottenuto anch'egli una nomination agli Oscar) ed il borderline Diego Luna, eccellente in un ruolo breve ma incisivo.
Il tono documentaristico della narrazione rende ancora più potente tutta l'opera, che non si rivolge esclusivamente ad un pubblico gay, ma a tutti coloro dotati di sensibilità e di un occhio critico, desiderosi e convinti che ogni persona goda degli stessi diritti e che sia ininfluente giudicarla o catalogarla in base a chi si porti a letto, a quale sesso appartenga, a quale sia il colore della sua pelle o quale credo religioso professi.
Purtroppo, 30 anni dopo, soprattutto nel nostro Paese, tanti passi e tanta strada devono ancora essere fatti, ed un Harvey Milk noi italiani non l'abbiamo mai avuto, per giunta.
La Proposition 6 del film non può non farci ricordare dell'attuale Proposition 8 (che vieta i matrimoni tra persone dello stesso sesso), che in America è stata approvata a novembre da un referendum, attualmente in fase di valutazione e giudizio da parte della Corte Costituzionale, per verificare quanto sia opportuno far decidere ad una maggioranza i diritti di una minoranza. Non tutto sembra perduto quindi.
Il perché del film sta proprio qui: oltre che un capolavoro, cinematograficamente parlando, è realmente un'avventura intima, uno sconvolgimento personale, una voglia di partecipazione ed uno scavo profondo nell'animo umano.
Usciti dalla sala si ha la sensazione di essere parte di un meccanismo importante, di poter fare qualcosa nel proprio piccolo e di essere orgogliosi e fieri di ciò che si è, senza se e senza ma.
Per inciso: se non avessi fatto coming out con i miei 2 anni or sono, l'avrei fatto adesso tornando a casa.
Nessun commento:
Posta un commento