
Dopo 7 anni di assenza, Baz Luhrmann ci regala quello che può essere definito il Bignami del perfetto film epico, condito di romanticismo, azione, dramma ed avventura, panorami suggestivi e scenari mozzafiato, sontuose musiche e ricostruzione storica maniacale, sulla falsariga dei classici capolavori hollywoodiani come "Via col vento", "La Regina d'Africa" e "Lawrence d'Arabia" (a cui il regista ha ammesso di essersi ispirato).
Qui, manco a dirlo, siamo ben distanti. E tutta l'operazione puzza un po' di artificioso e di calcolato.
Dal film di Victor Fleming riprende l'archetipo dell'avvincente storia d'amore travagliata, mentre sullo sfondo si consuma l'orrore della guerra (là era quella di Secessione, qui la Seconda Guerra Mondiale e l'attacco giapponese alla città australiana di Darwin).
Della pellicola con Humphrey Bogart e Katherine Hepburn si riconosce bene l'incontro/scontro tra due caratteri e personalità diametralmente opposti (l'altolocata, snob e rigida lady inglese ed il rude e selvaggio mandriano) che alla fine si arrendono all'inevitabile passione.
Dall'opera di David Lean trae ispirazione per le locations reali (il film è stato girato interamente nei deserti dell'Australia, e non in studi ricostruiti), per il grande respiro della narrazione e per il connubio avventura-riscoperta di sé.
Ma il confine tra citazione e ricalco è molto labile, così come quello tra maestosità e polpettone. Sta proprio qui la debolezza del film (e del regista): il dispositivo tecnico è perfettamente oliato e tutti gli ingranaggi combaciano ineccepibilmente, ma forse troppo.
Tutta la storia ed ogni singola scena sanno di precostituito e studiato a tavolino, perfino le emozioni sembrano arrivare scontate e prevedibili.
Insomma, un bello senz'anima, eccessivamente manieristico.
Ci aspettavamo sicuramente di più da Luhrmann, dopo il suo capolavoro assoluto del 2001, "Moulin Rouge!", per quanto le scelte stilistiche, la fotografia ed i costumi (nomination all'Oscar per la creatrice Catherine Martin, moglie del regista) siano, ripeto, ammirevoli.
E di più esigevamo senza dubbio da Nicole Kidman, che aveva la possibilità di aggiungere un personaggio ed un'interpretazione fondamentali alla sua sua fulgida carriera (ultimamente un po' in sordina), ma che qui appare stilizzata in un ruolo stereotipato, aggiungendo mossette e smorfie in certi punti alquanto insopportabili. Si salva comunque per l'eleganza (come sempre), la classe innata ed il rigore, preferendola comunque negli sdruciti abiti da "mandriana" improvvisata. E sicuramente va rivalutata nella versione originale in cui sfoggia un impeccabile accento british.
Molto meglio Hugh Jackman (penalizzato da un doppiaggio a tratti monocorde e piatto da parte di Adriano Giannini), subentrato al ruolo che fu inizialmente previsto per Russel Crowe e addirittura per Heath Ledger (che declinò per girare "The Dark Knight"), perfettamente a suo agio nel ruolo di mandriano dal cuore tenero. Prorompente la sua fisicità (e si capisce perché sia stato eletto da People come l'uomo più sexy del 2008).
Menzione speciale per il piccolo Brandon Walters, l'aborigeno Nullah e voce narrante del film, vera e propria rivelazione.
Genuinamente interessante il carattere di "denuncia" della storia: l'episodio sconosciuto a noi europei (almeno sui libri di storia) della "generazione rubata", cioè la deportazione dei giovani aborigeni, strappati alle loro famiglie e trascinati in campi di rieducazione dove venivano assoggettati alla vita "civile" e costretti ad imparare l'obbedienza ai bianchi.
Per oltre 60 anni, fino al 1967, i figli di matrimoni misti sono stati sottratti ai genitori e solo nel febbraio 2008 il governo australiano ha chiesto scusa ai popoli indigeni. Meglio tardi che mai.
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