È di questi giorni la notizia che il reality show “L’Isola dei famosi 7”, in onda presumibilmente da febbraio 2010, abbia proposto ufficialmente a Graziano Mesina la partecipazione al programma.
Per chi ancora non lo sapesse, il signore in questione vanta un curriculum di “tutto rispetto” all’interno della malavita sarda: specializzato in rapimenti ed omicidi, per il suo ruolo di spicco nel banditismo isolano è stato soprannominato la “primula rossa”.
Ebbene, dopo aver trascorso 40 anni in carcere e quasi 5 in latitanza, ed aver ottenuto nel 2004 la grazia, oggi Mesina, che di anni ne ha 67 ed è tornato un uomo libero, ha accettato di buon grado l’invito al reality condotto da Simona Ventura, se non altro perché, parole sue, “qualche settimana ai Caraibi non mi dispiacerebbe”.
E a chi non piacerebbe farsi una gita spesata in uno degli angoli più ameni del pianeta? Aggiungete i travagliati anni di galera e le continue evasioni, e avrete il quadro completo della profonda sofferenza di quest’uomo che, giustamente, ora ha bisogno di una vacanza.
Ci si sono messi anche i parlamentari ad ostacolare la sua presenza al reality, affermando che sarebbe immorale utilizzare i soldi pubblici per ingaggiare un criminale che si è macchiato di reati ripugnanti come il sequestro di persona (visto che già sono usati per pagare i criminali in Parlamento).
La televisione italiana, o meglio la creatura reality, è arrivata talmente alla frutta da dover includere tra le sue fila ex malviventi oppure si stanno sperimentando nuove frontiere di entertainment ai limiti della legalità? Il caso di Fabrizio Corona sarebbe lampante già di per sé, e di solito l’indignazione è figlia acquisita dell’ipocrisia.
Tuttavia la domanda che sorge spontanea, al di là di qualsiasi bagarre puramente catodica, è: se fossi il familiare di una delle vittime del signor Mesina, novello naufrago sul secondo canale della televisione di Stato, mi sentirei ancora in dovere di pagare il servizio pubblico e, soprattutto, ritenermi rispettato come cittadino? Certo, il telecomando è ancora un mezzo altamente democratico, ma perché a chiudere un occhio deve essere sempre la vittima e non il carnefice?
Per chi ancora non lo sapesse, il signore in questione vanta un curriculum di “tutto rispetto” all’interno della malavita sarda: specializzato in rapimenti ed omicidi, per il suo ruolo di spicco nel banditismo isolano è stato soprannominato la “primula rossa”.
Ebbene, dopo aver trascorso 40 anni in carcere e quasi 5 in latitanza, ed aver ottenuto nel 2004 la grazia, oggi Mesina, che di anni ne ha 67 ed è tornato un uomo libero, ha accettato di buon grado l’invito al reality condotto da Simona Ventura, se non altro perché, parole sue, “qualche settimana ai Caraibi non mi dispiacerebbe”.
E a chi non piacerebbe farsi una gita spesata in uno degli angoli più ameni del pianeta? Aggiungete i travagliati anni di galera e le continue evasioni, e avrete il quadro completo della profonda sofferenza di quest’uomo che, giustamente, ora ha bisogno di una vacanza.
Ci si sono messi anche i parlamentari ad ostacolare la sua presenza al reality, affermando che sarebbe immorale utilizzare i soldi pubblici per ingaggiare un criminale che si è macchiato di reati ripugnanti come il sequestro di persona (visto che già sono usati per pagare i criminali in Parlamento).
La televisione italiana, o meglio la creatura reality, è arrivata talmente alla frutta da dover includere tra le sue fila ex malviventi oppure si stanno sperimentando nuove frontiere di entertainment ai limiti della legalità? Il caso di Fabrizio Corona sarebbe lampante già di per sé, e di solito l’indignazione è figlia acquisita dell’ipocrisia.
Tuttavia la domanda che sorge spontanea, al di là di qualsiasi bagarre puramente catodica, è: se fossi il familiare di una delle vittime del signor Mesina, novello naufrago sul secondo canale della televisione di Stato, mi sentirei ancora in dovere di pagare il servizio pubblico e, soprattutto, ritenermi rispettato come cittadino? Certo, il telecomando è ancora un mezzo altamente democratico, ma perché a chiudere un occhio deve essere sempre la vittima e non il carnefice?
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